Beni culturali immateriali e brandizzazione: spigolature
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June 16, 2023Ogni impresa che voglia emergere sul mercato ha chiara la necessità di rendersi riconoscibile e comunicare con il proprio pubblico di riferimento. Da sempre la comunicazione, essenza del marketing, è strettamente connessa alla riconoscibilità di un brand e, come noto, lo strumento in grado di rappresentare efficacemente un’impresa racchiudendone l’identità e veicolarne il messaggio con l’effetto di determinare un’associazione immediata fra prodotto e imprenditore, è il marchio.
In quanto elemento strategico per la commercializzazione dei prodotti e servizi d’impresa, il marchio deve presentare determinate qualità che lo rendano affine alle caratteristiche nelle quali il consumatore tende a identificarsi e che gli permettano di distinguersi dai marchi dei competitor. In un mercato globalizzato e digitalizzato come quello attuale, nel quale convivono innumerevoli prodotti e servizi contraddistinti da altrettanti segni, la distintività è fondamentale.
Sebbene sul mercato ogni marchio si presenti con caratteristiche a sé stanti, si avverte oramai da tempo una tendenza piuttosto diffusa che accomuna numerosi marchi, il rebranding, ovvero la tendenza a modificare e/o aggiornare il segno in senso maggiormente semplificativo. Aziende che operano in diversi settori economici (moda, automobilismo, alimentazione, tecnologia) hanno infatti abbandonato l’idea di realizzare marchi eccessivamente complessi (tridimensionali ed arricchiti da font e colorazioni spiccate) per sposare una tendenza più minimalista (si vedano marchi famosi come Burger King o Mc Donald’s).
Le motivazioni che spingono a propendere per un simile approccio sono molteplici. In primo luogo, la necessità di aggiornare non semplicemente il proprio logo bensì l’immagine stessa del brand, rendendola più moderna ed affine alle esigenze della clientela: numerosi marchi puntano ad attrarre un pubblico giovane incline al cambiamento ed alla sperimentazione e poco interessato al marchio in sé, quanto piuttosto all’impiego dello stesso, soprattutto nell’ambito social.
In tale senso una ragione pratica che accresce la tendenza minimalista si riviene nella necessità di creare immagini che si adattino più facilmente all’uso tramite dispositivi tecnologici (telefoni, tablet, computer), il cui campo di azione molto ristretto, richiede immagini semplici ed intuitive: i “pixel” influiscono direttamente sulla realizzazione del segno rendendo necessari marchi con elementi grafici poco complessi ma ugualmente in grado di trasmettere emozioni ai propri consumatori.
Tale funzionalità del marchio, effetto della digitalizzazione, impone alle imprese una essenziale capacità di adattamento. I brand che mostrano maggiore flessibilità, intesa come capacità di adattarsi ai mutamenti del mercato ed alle dinamiche sociali, riscontrano la reazione positiva del pubblico rispetto a quelli poco inclini al cambiamento ed eccessivamente legati alla tradizione. Invero, marchi che si servono di immagini o nomi semplici che tendono all’inclusività e che seguono le tendenze, richiamano più facilmente l’attenzione del pubblico.
Alla base delle diverse strategie di rebranding si pone la necessità di comunicare al pubblico la filosofia alla base del brand. Lo stile comunicativo deve apparire coerente con la mission del brand e con i contesti nel quale il marchio viene impiegato. Ogni canale commerciale presuppone un linguaggio dedicato, pertanto, l’uso di segni eccessivamente complessi potrebbe compromettere i singoli usi (social e media in primis) con l’effetto negativo di allontanare la potenziale clientela (esempio in tal senso è quello della casa automobilistica Toyota che ha creato un logo dedicato esclusivamente all’uso social).
In linea generale è possibile affermare che il motivo alla base della filosofia minimalista dei brand è che la semplicità ispira maggiore fiducia nel consumatore: semplicità è sinonimo di trasparenza. Tuttavia, non sempre le motivazioni che spingono un’impresa a modificare il proprio marchio sono da ricondurre a propositi positivi. È acclarato che numerose imprese si servano del rebranding per ripulire la propria immagine commerciale attuando strategie comunicative tese a spostare l’attenzione del consumatore su valori ed obiettivi che non rispecchiano l’effettiva filosofia del brand (sono esempio in tal senso i rebranding posti in essere dalla casa automobilista Volkswagen successivamente allo scandalo “Dieselgate” e quello del social network Facebook, oggi Meta, successivamente allo scandalo dei “Facebook Papers”).
Quali che siano le motivazioni alla base delle strategie delle imprese, il fenomeno del rebranding appare piuttosto diffuso ed indubbiamente incarna una tendenza, se non una vera e propria necessità dei consumatori, a propendere per la filosofia del “less is more” premiando così quei brand che sappiano comunicare la propria visione del mondo nonché valori identitari semplici e genuini in grado di diffondere messaggi essenziali, degni di fiducia.